Se dal telefonino alzassimo lo sguardo su volti e tramonti, ci renderemmo conto che il messaggio che stiamo attendendo è già arrivato e ce lo siamo perso -
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articolo di Antonio Socci
I trent'anni di internet in Italia che si festeggiano in questi giorni non sono soltanto un avvenimento tecnologico, ma anche neurologico. E' una specie di supermente che abbiamo a disposizione sempre e dovunque con il nostro telefonino. Ma non si tratta solo delle infinite cose che possiamo trovare, conoscere, vedere, leggere, scoprire in un istante, da qualunque luogo.Con la rete ognuno si trova dotato di un corpo più esteso, di occhi, orecchi, mani e piedi più potenti. Siamo costantemente connessi col mondo, in qualche modo possiamo essere contemporaneamente in molti luoghi diversi e farci sentire. Ai quattro angoli del pianeta. E' un potere straordinario.
Tuttavia anche rischioso perché con la mente rischiamo di essere sempre altrove, sempre "fuori", così possiamo perdere o dimenticare la strada di casa: il nostro "io". Infatti la grande chance è diventata subito anche un rischio patologico. L'esperto fa la diagnosi: connessi con il mondo, ma sconnessi da noi stessi.
DIPENDENZA O POTENZA? Secondo alcune ricerche il 60 per cento degli italiani ammette di aver sviluppato una forma di dipendenza da internet (soprattutto attraverso il telefono cellulare). C'è una dipendenza che, anche prima di diventare patologica, crea ansia e fa vivere male, cosicché sono spuntate subito strategie di cura e disintossicazione digitale.
Ma - senza andare sul patologico - c'è una dipendenza lieve che forse riguarda tutti, se è vero, come scriveva tempo fa il Daily Mail, che la più diffusa fobia del mondo è la "nomofobia", cioè la paura di restare disconnessi dalla rete telefonica. Nell'eterna disputa fra gli apocalittici e gli integrati, gli scenari sono estremi e senza sfumature. I primi vedono ormai l'umanità schiava della tecnologia e dei padroni di essa, milioni di persone sottoposte a tecnostress, ore e ore di lavoro perse, legami familiari in fumo (vedi il film "Perfetti sconosciuti") e peggio ancora. Gli integrati invece esaltano le luminose possibilità offerte dalle nuove tecnologie, che effettivamente regalano enormi vantaggi.
In realtà hanno ragione entrambi. Ma non si può né rassegnarsi supinamente alla dipendenza digitale, né prospettare un rifiuto luddista delle nuove tecnologie, nella sua forma snob o in quella eremitica. Casomai - se il problema è la dipendenza - bisognerebbe riflettere sul "perché" di tale fenomeno. Se infatti si è calcolato che un utente comune - come ciascuno di noi - controlla il cellulare almeno 150 volte al giorno, che è obiettivamente un uso compulsivo, ciò non dipende dal cellulare, ma da noi.
In parte è provocato da un istinto automatico, ma forse in gran parte pure da un'inquietudine, da una mancanza indecifrata. Da una insoddisfazione costante. Può servire ogni tanto "staccare la spina" e disintossicarsi dai micidiali aggeggi elettronici per ritrovare noi stessi, ma non si risolve così il problema, perché non sappiamo chi siamo noi e perché abbiamo bisogno di "connessione".
Cioè non sappiamo cosa inconsciamente attendiamo. Non sappiamo - per dirla col poeta - di cosa è mancanza quella mancanza. Non sappiamo inoltrarci in quell'abisso che è la nostra psiche, la nostra mente o - se vogliamo - la nostra anima. Provare a farlo con lo psicoanalista (che ha sostituito preti e confessori) non sembra così efficace: come "meccanico" della psiche egli può (forse) riparare alcuni guasti della "macchina", ma non può dirti da dove vieni, né chi sei, né dove vai, né perché, né con chi. Soprattutto non può dirti chi cerchi e cosa ti manca.
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